Arti Elettroniche
Interfacce

Peregrinando tra gli scaffali delle biblioteche o tra i numerosissimi siti di arte e fotografia che si possono incontrare nelle nostre scorribande sulla rete, non ho potuto esimermi dall'acquistare un libro, peraltro già citato in alcuni miei precedenti interventi, considerato la “bibbia” dei nuovi linguaggi elettronici: Il linguaggio dei nuovi media, di Lev Manovich.(1)
Tali e tante sono le argomentazioni riportate che sicuramente ci saranno altre occasioni per attingere ai preziosi testi di quest'autore. Dopo aver assistito alla nascita della computer grafica e dei videogames, trovo appropriato affrontare un tema fondamentale per noi utenti informatici dell'ultima ora, abituati agli schermi grafici, ai mouse, alle tavolette grafiche, nonché alle cartelle, ai cestini in mezzo al desktop e alle fotografie che fanno bella mostra di sé sullo sfondo; parliamo delle interfacce: ovvero, di ciò che sta tra noi, il nostro modo di “sentire” e di ragionare e la macchina, con i suoi oscuri algoritmi, con funzioni complesse e soluzioni tecniche recondite.
Manovich raffronta due realtà, una tecnologica ed una cinematografica, che aprono importanti disquisizioni filosofiche in merito. Riporto integralmente alcune sue parole.
«Nel 1984 Ridley Scott, il regista di Blade Runner, fu incaricato di realizzare uno spot per il lancio del nuovo Apple Macintosh.(2) In retrospettiva, quello spot(3) assume un forte significato storico e sociale. Blade Runner (1982) e il computer Macintosh (1984) - usciti a due anni di distanza l'uno dall'altro - definirono i due parametri estetici che oggi, oltre vent'anni dopo, governano ancora la cultura contemporanea, stabilendo quello che chiameremo "il presente permanente". Il film era una distopia che combinava futurismo e decadenza, informatica e feticismo, gusto retrò e urbanesimo, Los Angeles e Tokio. Dalla sua uscita Blade Runner, è stato replicato in un'infinità di film, videogiochi, romanzi e altri oggetti culturali ma nessuno è mai riuscito a scalfire l'influenza esercitata sulla nostra immagine del futuro.
In contrasto con la visione cupa, decadente, postmoderna suggerita da Blade Runner, l'interfaccia grafica(4), resa popolare dal Macintosh, è rimasta fedele ai valori modernisti della chiarezza e della funzionalità. Il computer comunicava con l'utente tramite dei box rettangolari contenenti dei caratteri scuri su fondo bianco. Alle versioni successive della GUI vennero aggiunti i colori e la possibilità per l'utente di personalizzare l'aspetto di molti elementi dell'interfaccia, attenuando così la rigidità e la pesantezza della versione monocroma del 1984. Eppure la sua estetica sopravvive nei display di strumenti portatili come il palmari, i telefoni cellulari, i sistemi di navigazione satellitari delle auto e gli altri prodotti di elettronica di consumo che utilizzano piccoli display a cristalli liquidi, paragonabili per qualità allo schermo del Macintosh versione 1984.
Come era avvenuto con Blade Runner, la visione proposta dalla GUI si diffuse in molte altre aree culturali, dal puro aspetto grafico (per esempio, l'uso di elementi da parte dei designer di prodotti editoriali e televisivi) ad aspetti più concettuali. Negli anni Novanta, con la sempre maggior diffusione di Internet, il ruolo del computer si trasformò da tecnologia specifica (calcolatore, processore di simboli, manipolatore d'immagini, etc.) a filtro per l'intera cultura, ovvero a forma di mediazione per tutti i tipi di produzione artistica e culturale. Quando, tutt'a un tratto, la finestra di un browser sostituì lo schermo televisivo e cinematografico, la parete di una galleria d'arte, la biblioteca e il libro, la nuova situazione si manifestò in tutta la sua portata. Tutta la cultura, del passato e del presente, veniva ormai filtrata dal computer, con la sua particolare interfaccia uomo-macchina. In termini semiotici, l'interfaccia del computer è una sorta di codice che porta dei messaggi culturali in una varietà di media. Quando usate Internet, tutto passa attraverso l'interfaccia del browser e quella del sistema operativo. Nella comunicazione culturale, un codice non è quasi mai solo un meccanismo di trasporto neutrale, di solito influenza anche i messaggi che viaggiano su di esso.»
« Per avere un'idea di come l'interfaccia imponga la propria logica sui media, considerate le opzioni "taglia e incolla" che sono ormai presenti in tutti i software che utilizzano le moderne interfacce. Quest'opzione rende insignificante la distinzione tradizionale tra media spaziali e temporali, perché l'utente può tagliare e incollare parti d'immagine, zone spaziali e parti di una composizione temporale nello stesso identico modo. Inoltre, è "cieca" rispetto alle distinzioni tradizionali delle dimensioni: l'utente può tagliare e incollare un singolo pixel, un'immagine o un intero filmato digitale sempre allo stesso modo. Infine, questa operazione toglie significato anche alla distinzione tradizionale tra media diversi: l'opzione "taglia e incolla" si può applicare ai testi, alle immagini ferme e in movimento, ai suoni e agli oggetti tridimensionali.»
Il testo che sto scrivendo ora è un lampante esempio di quanto Manovich afferma. Scrivo su un word processor, uso un programma OCR per trasformare i caratteri di un libro in testo editabile, con un browser ricerco e visualizzo delle immagini e riporto con un “taglia e incolla” parti di dati da un interfaccia ad un'altra con gli stessi identici comandi.
« Se l'interfaccia uomo-computer diventa un codice semiotico essenziale per la società delle informazioni, oltre che un suo meta strumento, come incide tutto questo sul funzionamento degli oggetti culturali e delle creazioni artistiche? Nella cultura del computer diventa normale costruire una serie di interfacce diverse per uno stesso "contenuto". Per esempio, gli stessi dati si possono rappresentare sotto forma di grafico bidimensionale o di spazio interattivo navigabile. Oppure lo stesso sito Web può presentare all'utente due versioni diverse in base alla velocità del collegamento. Di conseguenza saremmo tentati di concludere che anche l'opera d'arte che utilizza i nuovi media possegga due livelli separati: contenuto e interfaccia.»
« Nasce così un curioso paradosso. Molte opere d'arte realizzate con i nuovi media possiedono ciò che possiamo chiamare una "dimensione informativa", la condizione che hanno in comune con tutti i nuovi oggetti mediali.»
« Le opere d'arte mediali hanno delle dimensioni estetiche o "esperienziali" che ne giustificano il loro status di arte anziché di mere strutture grafiche o informative. Queste dimensioni comprendono: una particolare configurazione dello spazio, del tempo e della superficie descritte nell'opera; una particolare sequenza temporale delle attività messe in atto dall'utente che interagisce con l'opera; una particolare esperienza, formale, materiale e fenomenologica da parte dell'utente. È l'interfaccia dell'opera che crea la sua specifìca materialità e determina un'esperienza unica per l'utente. Modificare, anche solo leggermente, l'interfaccia significa modificare sostanzialmente l'opera. Da questo punto di vista considerare l'interfaccia come livello separato, un qualcosa che si può modificare arbitrariamente, significa eliminarne la dimensione artistica.»
Forse è banale e scontato considerare il fatto che tutte le nostre opere passano comunque attraverso un'interfaccia. Può essere questa un “normale” passepartout, può essere una particolare installazione espositiva, può essere un montaggio in dissolvenza o un montaggio video interattivo.
Oggi, una cosa è certa, il primo approccio che abbiamo con le nostre immagini non avviene attraverso la trasparenza di una diapositiva, o una stampa in camera oscura, ma avviene attraverso un monitor, sia esso il mirino della fotocamera o quello del computer utilizzato per navigare. Quest'ultima considerazione mi riporta a un ulteriore pensiero di Lev Manovich:
«Lo schermo viene collocato all'interno di una tradizione storica più vasta e vengono individuate le fasi che sono seguite allo sviluppo di questa tradizione: l'immagine illusionistica e statica di un dipinto del rinascimento; l'immagine in movimento che vediamo al cinema; l'immagine in tempo reale che appare sul radar e sullo schermo televisivo e l'immagine interattiva in tempo reale che ci offre il monitor del computer.»
Si, anche FOTOIT è un'interfaccia.

Ezio Turus
Docente DAC

(1) Lev Manovich - Il linguaggio dei nuovi media – Edizioni Olivares, 2002 - http://www.manovich.net/
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Apple_Macintosh#Origine_del_nome
(3) http://www.uiowa.edu/~commstud/adclass/1984.apple_ad.mov
(4) Graphical User Interface, abbreviato GUI - http://it.wikipedia.org/wiki/Interfaccia_grafica