Inverno 1958, Massachusetts, piena notte. A Cambridge, nelle strade che
delimitano i laboratori e i magazzini del MIT, un'ombra sta vagabondando,
apparentemente senza meta.
Certamente non è uno studente, che a queste ore resterebbe nel suo
alloggiamento o a qualche festa studentesca e non nei dintorni del palazzo
26, dove si trovava la stanza EAM(2), per certi individui, il luogo più attraente
di tutto il MIT. Ecco, forse una spia!
Questa scena non è l'inizio di un romanzo noir, tanto in voga in
quegli anni e nemmeno un film poliziesco, ma semplicemente un momento fondamentale
della nascita di una nuova generazione di ricercatori e inventori a cui
tuttora, noi informatizzati, dobbiamo molto.
Ci troviamo al MIT (3), dicevo, la più prestigiosa università scientifica,
dove la scienza e la ricerca sono i fondamenti dell'attività del
college. Al pari dei Bell Labs, già conosciuti nel mio precedente
intervento, anche qui le brillanti menti degli studenti e dei ricercatori
contribuiscono a sviluppare nuove invenzioni.
La “spia” citata all'inizio non era affatto tale, anzi; era
il tipico atteggiamento di curiosità, di voglia di scoprire, di
voglia di capire come funzionano le cose che portava Peter Samson, così come
i suoi compagni e amici, a rovistare tra i grovigli di cavi e relè per
scoprire i segreti della commutazione telefonica. Per loro le cose acquisivano
significato solo se si scopriva come funzionavano e l'unico modo per farlo
era metterci dentro le mani(4), indipendentemente se per farlo fosse stato
necessario forzare qualche serratura o entrare in luoghi riservati.
In quegli anni non molta gente aveva visto un computer, figuriamoci poi
usarne uno. Grazie alle visite al MIT di Lowell, la sua città, al
lavoro del padre, riparatore di macchine per l'industria, a una trasmissione
televisiva in cui si spiegava la programmazione di un computer, Samson
divenne subito un fanatico.
Il suo ingresso al college iniziò con il tradizionale discorso di
benvenuto, al quale seguiva il freshman midway, una specie di cerimonia
di inserimento dei nuovi arrivati nelle attività universitarie.
Tutte le organizzazioni cercavano di reclutare nuovi membri. Peter fu “catturato” dal “Tech
model railroad club”(5), il gruppo che curava un immenso plastico
ferroviario. All'interno del club c'erano due gruppi distinti: uno si occupava
dei modelli, di creare scenografie, l'altro era in contatto con S&P(6)
e si occupava di quello che succedeva sotto la superficie del plastico.
Qui c'era “il sistema”, tutte le connessioni che permettevano
di comandare i treni, gli scambi e ogni particolare: l'ambiente perfetto
per Peter Samson. La complessità dei circuiti creati dal S&P
li spinsero a frugare tra gli edifici universitari nel tentativo di mettere
le mani sui computer. Appena potevano si infiltravano nella stanza EAM
cercando di usare la macchina per controllare gli scambi sotto il plastico
e, cosa ancora più importante, per capire cosa si poteva fare con
un calcolatore elettromeccanico.
Un giorno fece visita al club un vecchio socio del TMRC, Jack Dennis, il
quale lavorava su un computer del MIT chiamato TX-0(7). Era uno dei primissimi
a funzionare a transistor e il suo compito era quello di controllare un
altro gigantesco computer, il TX-2(8). Dennis chiese ai componenti del
S&P se volessero vederlo, si trovava al secondo piano del palazzo 26,
proprio sopra il centro di calcolo che ospitava un mastodontico IBM 704,
un computer a schede perforate, al quale solo pochissimi tecnici potevano
accedervi e dove gli utenti, una volta inserite le istruzioni, dovevano
attendere ore, spesso giorni, prima di avere un risultato.
Lo spirito che accompagnava questi ragazzi era ben diverso da quello dell’IBM,
che invece di puntare sull’innovazione faceva riferimento all'alta
affidabilità e stabilità, ma anche ad un livello molto basso
di interattività con l’utente. Queste macchine si rivelavano
poco adatte ad uno stile di programmazione basato sull’improvvisazione,
sulla curiosità e sull’esplorazione.
I membri del TMRC erano impressionati: Il TX-0 non utilizzava le vecchie
schede perforate e aveva addirittura un vero e proprio schermo. Si poteva
modificare un programma standoci comodamente seduti davanti, senza passare
attraverso i petulanti tecnici che fino ad ora si occupavano della manutenzione
dei grossi “bestioni” del MIT. Un vero miracolo!
A sovrintendere i lavori del TX-0 c’era John McKenzie, un bravo tecnico
che ben tollerava le continue intrusioni dei fanatici del TMRC. Questi
capirono presto che il momento migliore per accedere alle sessioni di lavoro
era la notte, quando i normali laureandi non frequentavano i laboratori;
ben presto il regime di vita del gruppo si adeguò a quello dei turni
di sessione davanti al calcolatore.
Jack Dennis, a capo di tutto il settore, assunse il ruolo di “patrino” per
questi ragazzi insegnando loro il funzionamento della macchina. McKenzie,
da parte sua, intuiva che da queste incursioni notturne nasceva anche un
nuovo stile di programmazione, per cui non pose mai troppe restrizioni,
anzi. Tra gli “scienziati pazzi” devoti al rumore delle stampanti,
del condizionatore e dei labirinti del MIT, si era infiltrato anche Peter
Deutsch, un piccolo genio di soli dodici anni, figlio di un professore.
In pochissimo tempo, grazie alle sue doti, imparò bene l'uso di
quel calcolatore e ad acquisire una conoscenza incredibile nella programmazione.
Si fermava alle spalle degli utenti regolarmente registrati, magari importanti
laureati, e con la voce stridula da adolescente faceva notare loro gli
errori commessi. Che dire poi di Samson che intuì come far suonare
il piccolo altoparlante del TX-0 seguendo una sequenza precisa di codici
in linguaggio macchina. Per gli estranei ascoltare le melodie di Bach senza
armonia, con una singola voce e con toni metallici, sembrava un vero spreco: “Un
macchinario da tre milioni di dollari che suona peggio di un piano giocattolo”.
In realtà Peter Samson aveva rivoluzionato il modo in cui la musica è stata
scritta da sempre, cioè partendo dal suono, dalle vibrazioni. Egli
la musica l'aveva inserita direttamente nel codice di programmazione. Si
poteva passare ore a guardarlo senza intuire dove fossero le note, o meglio
i suoni. Questi uscivano dai milioni di scambi di informazioni dentro le
celle di memoria del calcolatore. Samson aveva ordinato al calcolatore,
che non è uno strumento musicale, di suonare e questi l'ha fatto.
Stava nascendo qualcosa di nuovo attorno a questo computer in questa comunità,
una nuova filosofia di vita, una nuova etica. Gli hackers si resero conto
che la loro dedizione per l'informatica, assieme all'abilità tecnica,
li stava portando all'avanguardia in una nuova simbiosi tra uomo e macchina.
I precetti di questa etica hacker non erano scritti, ma tacitamente accettati:
l'accesso ai computer deve essere illimitato e completo; l'informazione
deve essere libera; gli hacker sono giudicati per il loro operato, non
sulla base di falsi criteri, quali ceto, età, razza, posizione sociale;
con il computer puoi creare arte; i computer possono cambiare la vita in
meglio.
Più che “regole” sono concetti ampiamente condivisi
che hanno permesso la nascita di un universo comune a tutti noi. Pensiamo,
per esempio, alle migliaia di siti che ogni giorno consultiamo, pensiamo
alle centinaia di programmi gratuiti che, grazie al lavoro di tanti entusiasti
accomunati da quest'etica, possiamo liberamente usare, pensiamo al lavoro
di questi primi pionieri, che in un week-end, saltando il sonno e le altre
necessità primarie, riuscivano a scrivere le migliaia di righe di
codice necessarie a implementare nuove funzioni. Lavori che, se regolarmente
pianificati attraverso i pachidermici canali burocratici, avrebbero richiesto
mesi di lavoro e immensi investimenti. Pensiamo ai sistemi operativi (Linux
in testa) che permettono ai nostri computer di funzionare, grazie proprio
alla grande comunità di hacker che quotidianamente trova nuove soluzioni “mettendoci
le mani dentro”.
Purtroppo la scarsa informazione e, soprattutto, i media, hanno notevolmente
contribuito a screditare il fondamentale ruolo di questi personaggi, confondendoli
con i criminali informatici con i quali l'etica hacker non ha nulla da
spartire.
Può sembrare poco attinente parlare di storia informatica in una
comunità di fotografi, ma mi sono reso conto che ci sono moltissime
cose in comune tra l'etica hacker ed essere fotografi: la libera informazione,
prima di tutto, la devozione che accomuna entrambi affinché ci sia
la maggiore diffusione possibile della conoscenza; la possibilità di
giovare delle scoperte degli altri.
La storia non si conclude qui, comunque. Come accennato nelle note, al
MIT sono state sviluppate altre applicazioni maggiormente attinenti all'arte
elettronica. Ma questo lo vedremo nel prossimo articolo.
Ezio Turus
Docente DAC
(1) Il titolo è un omaggio all'omonimo
saggio di Steven Levy, 1994, Shake Edizioni, a cui mi sono liberamente
ispirato per le vicende raccontate. http://www.stevenlevy.com/index.php/other-books/hackers
(2) "Electronic account machinery", un'apparecchiatura per la
contabilità elettronica
(3) “Massachusetts Institute of Technology” - http://web.mit.edu/
(4) “Hack” è un vecchio termine usato per indicare gli
scherzi inventati dagli studenti del MIT
Nel contesto della ricerca informatica, però, è inteso letteralmente
come il puro piacere di “metterci dentro le mani” per scoprire
e migliorare il funzionamento
(5) http://tmrc.mit.edu/
(6) "Signal and Power subcommitee", sottocommissione per lo studio
dei segnali e dell'energia
(7) http://en.wikipedia.org/wiki/TX-0
(8) Vedremo in seguito in maniera più approfondita gli studi “ufficiali” al
MIT, come quelli di Ivan Suterland che, grazie a questa macchina, “inventò” la
computer grafica
Bibliografia e fonti:
Steven Levy, “Hackers”, Shake Edizioni, 1994
http://hacks.mit.edu/
http://web.mit.edu/
http://ed-thelen.org/comp-hist/TheCompMusRep/TCMR-V08.html